I 40 gradi di Tor Vergata e la parola refrigerante del Papa

 

Di don Graziano Borgonovo

 

Che Giovanni Paolo II sia uno dei più grandi testimoni della fede nella storia della Chiesa contemporanea, è un dato sul quale non cade ormai più alcuna ombra di dubbio. Ch’egli abbia un’autorità morale, internazionalmente riconosciuta, al di là di ogni possibile cultura o credo religioso, è pure una certezza acquisita. Ch’egli possa parlare personalmente a ciascuno anche di fronte ad una platea di oltre due milioni di persone, bastava essere presenti a Tor Vergata il 19 e 20 agosto scorsi per accorgersene. (Rimane d’altronde vero che chi non vuole intendere può continuare a non farlo e a perseverare nel suo saccente indurimento). Non c’è ovviamente nessun culto della personalità nelle intenzioni che il Pontefice persegue e nessun culto della personalità nei giovani (sono sempre loro i più liberi…) che ovunque nel mondo lo seguono e lo acclamano. Il punto è un altro: Giovanni Paolo II dice parole vere. Meglio ancora: egli fa esperienza di quelle parole vere che dice e ridice instancabilmente.

Il resistere all’usura del tempo è uno dei criteri decisivi per discriminare tra parole vere e parole che, durando lo scintillio di un istante, vere non sono. E tale capacità di resistenza delle parole vere dipende dal loro essere ancorate nelle esigenze fondamentali del cuore di ogni uomo, ovunque egli viva, in qualunque situazione si trovi ad agire, giovane o vecchio, colto o incolto, povero o ricco che sia, e per quanto distratto o disorientato possa essere. Con Giovanni Paolo II tutto va all’essenziale e nulla è banale o superfluo nelle parole proferite: i giovani lo percepiscono al punto da riuscire a far ringiovanire (forse come alcuni non vorrebbero…) il Papa stesso!

Le parole decisive per l’esistenza - quelle nelle quali altre di capitale importanza confluiscono - sono fondamentalmente tre: io, Chiesa, Cristo. La correlazione tra questi tre indissociabili “elementi”,  si capisce con chiarezza dalla mirabile omelia che il Santo Padre ha tenuto rivolgendosi ai delegati del VII Forum Internazionale a Castel Gandolfo il 17 agosto, nel cuore dunque della XV Giornata Mondiale della Gioventù. Il testo (riprodotto per intero alla pagina 35) contiene implicazioni di carattere pedagogico e pastorale sulle quali non si deve sorvolare e che meritano essere messe a fuoco per rendere più adeguato lo sguardo di tutti, qualunque posizione si occupi nella Chiesa, più stringente l’approccio missionario e - se Dio vuole - più proficua la prassi quotidiana.

Ci limitiamo a tre brevissimi rilievi.

1) «Prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato» (Ger 1,5). O il mio fragile io ha una radice e una consistenza permanente nell’amore eterno di un Tu eterno, o al ritrovarsi in balia di un vortice di sensazioni-emozioni-pressioni (sempre cangianti e di portata/intensità variabile) non sarà possibile opporre alcuna resistenza, perché il “mondo” è forte, con il tragico risultato della perdita della propria identità personale tracciata secondo il disegno eterno di Dio. Nulla è perciò più commovente del fatto che Dio si sia fatto uomo («il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»: Gv 1,14, sempre richiamato dal Papa ai giovani) per dare l’aiuto definitivo, per accompagnare con discrezione, con tenerezza e potenza il cammino faticoso di ognuno, alla ricerca del proprio volto umano. Prima di qualsiasi struttura, organizzazione o ufficio da svolgere, c’è dunque la preoccupazione per l’io, per la sua consistenza, per il suo rapporto con quel Tu di Dio che in Cristo si è fatto compagnia fedele al percorso storico, sovente accidentato, di ogni persona umana.

2) La vita cristiana non è il ricordo di qualcosa accaduto nel passato e di ormai inesorabilmente lontano nel tempo. È l’esperienza presente del Signore all’interno del Suo Corpo vivo che è la Chiesa. «Quanta ricchezza nell’universalità della Chiesa, nella sua “cattolicità”! Quanta diversità secondo i paesi, i riti, le spiritualità, le associazioni, movimenti e comunità, quanta bellezza, e nello stesso tempo quale comunione profonda nei valori comuni e nel comune attaccamento alla persona di Gesù, il Signore!». Possiamo porre il problema, ancora una volta, in forma disgiuntiva: o guardo a spiritualità, associazioni e movimenti, come ad un problema, o vi guardo come ad una risorsa. Tutto il resto - indirizzi pastorali, decisioni contingenti, linee educative - ne discenderà come una logica conseguenza. Solo nel secondo caso però potrò percepire tali realtà - col Santo Padre - come «una manifestazione della ricchezza di quell’unico, straordinario dono che è la Rivelazione, di cui il mondo ha tanto bisogno».

3) Capiamo allora perfettamente l’esortazione conclusiva: «Cari giovani, amate Cristo e amate la Chiesa! Amate Cristo come Egli vi ama. Amate la Chiesa come Cristo la ama». Non potrebbe essere descritta meglio l’implicazione che intercorre tra l’io di ogni cristiano, la Persona di Cristo e il Corpo della Chiesa. Solo amando Cristo come Egli mi ama e solo amando la Chiesa come Lui la ama, ho la garanzia della mia libertà salvaguardata (l’alternativa sarebbe cedere alla pretesa impossibile del mondo di separare Cristo dalla sua Chiesa, per configurarsela secondo i parametri di un raggruppamento umano manipolabile). Assumere in prima persona ed integralmente, senza remore, quella realtà che lo Spirito di Cristo non cessa di vivificare in forme sempre nuove e mai a priori prevedibili, è la condizione antropologica per portare frutti di buona testimonianza, «affinché il mondo creda».